Siena e i suoni del Mercato delle Merci
Sono arrivata presto a Siena per trovare posteggio dentro lo stadio, ai piedi della Fortezza Medicea, prima di immergermi nel rituale chiassoso del mercato del mercoledì. Mi infilo nel bar Nannini in piazza Matteotti e sento il ritmo incalzante del tintinnio di piattini, tazzine e cucchiaini posati istericamente sul banco di marmo, accompagnato dal ronzio dello spremiagrumi azionato contemporaneamente al macina caffè. “Ciao, che ti preparo?”. “Cappuccio con latte di soia e un ricciarello, grazie!” rispondo, e preparo i contanti per pagare. Il registratore di cassa emette uno stridio mentre esce lo scontrino.
Inizio il mio giro nel mercato, in sottofondo sento il rombo dei furgoncini dei commercianti ritardatari che posteggiano, il rumore spaccatimpani dei tubi metallici buttati al suolo, i tonfi delle casse di merci lasciate cadere a terra, lo scricchiolamento dei tendoni che vengono aperti per coprire le bancarelle, i dialoghi a voce bassa tra i commercianti prima di iniziare la mattinata, mugugni quasi impercettibili, inframezzati da bestemmie colorite causate da intoppi. Un uomo canticchia a mezza voce una canzone popolare mentre sistema le sue maglie sul banco.
Alle 8.30 è già tutto pronto. Stanno arrivando molte persone e intorno a me si alza lentamente un vocio di lingue e accenti diversi. Squilli di cellulari, colpi di tosse, starnuti, singhiozzi, rutti… Mi diverto ad ascoltare la vivace trattativa con la “c” aspirata e i termini coloriti che volano nell’aria. “Un c’è verso, signora, chosì non si pòle fare!”.
Da alcuni banchi arriva la musica a palla, oppure un incitamento ad acquistare: “Forza donne!!!”, “Oggi è il vero affare, prezzi così mai visti!”.
Patapum! Mi volto e vedo un bambinetto che è caduto a pancia in giù mentre cercava di correre via da sua madre per raggiungere il banco dei giocattoli. Non si è fatto male, ma esplode il suo pianto a squarciagola, condito dal rimbrotto stridulo della madre: “Mi devi stare accanto, sennò vedi che ti succede!”. Il suono secco delle pentole che vengono impilate una sull’altra, il fruscio dei tessuti che vengono spiegati davanti alla cliente, il borbottio di qualcuno che è risentito, il trascinamento scanzonato delle ciabatte di chi non solleva da terra i piedi quando cammina… È come stare in mezzo a una orchestra di strumenti a fiato, archi, ottoni, percussioni, diretta da mani invisibili: la musica diventa sempre più alta, inframmezzata da fastidiosi acuti e potenti bassi.
Nel caos sento il mio stomaco che borbotta. “Ma meglio del mangiare, icche c’è?”. Sembra il richiamo delle sirene di Ulisse quello della donna che affetta al coltello un invitante prosciutto toscano stagionato. “Me ne metta un paio di fette in quella schiacciata, che me le mangio ora”. Addentando il mio saporito bottino mi siedo su un muretto e osservo il tempo della chiusura: gli ambulanti cominciano a smontare i banchi, volano saluti e risate dopo una lunga mattina di lavoro e contrattazioni, imbonimenti, battute sincere o di circostanza. Man mano le voci si affievoliscono, i furgoncini rombando si allontanano dalla piazza del mercato, lasciando a terra cassette vuote, carte e avanzi di cibo.
Subentrano ramazze che sfregano l’asfalto e soffiatori che sbuffano violentemente aria per radunare i rifiuti, mentre camioncini della nettezza urbana raccolgono quanto rimasto al suolo e macchine lava-strada avanzano rumorosamente.
Le tracce del mercato sono così dissolte: mi sembra di essermi svegliata da un sogno vibrante di suoni e colori, che dimentico nel giro di qualche minuto mentre ritorno alla mia auto.
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